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GRAZIE PER LA CIOCCOLATA
(MERCI POUR LE CHOCOLAT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 novembre 2000
 
di Claude Chabrol, con Isabelle Huppert, Jacques Dutronc, Brigitte Catillon (Francia, 2000)
 
Cominciano col dire che un film come GRAZIE PER LA CIOCCOLATA è improponibile nella sola versione doppiata in italiano. Avevamo almeno una consuetudine, nel quadro della distribuzione nostrana: quella di proiettare una parte delle pellicole straniere (se non quelle in svahili, perlomeno le francesi) nella versione originale. Ora che siamo al traino della distribuzione italiana, pare abbiamo perso anche quella modesta differenziazione; e, dopo il film di Woody Allen, eccone un altro castrato di buona parte del suo interesse. Perché, se il doppiaggio non incide eccessivamente su un western, un thriller, un film basato su uno schema classico, eterno, tanto immutabile da poter essere seguito ad occhi chiusi (proprio come faceva Borges ormai cieco), in un film intimista, di atmosfera, come lo sono quasi tutti quelli francesi il risultato è desolante.

E se c'è un film essenzialmente intimista e di atmosfera, questo è proprio l'ultimo (il cinquantaduesimo!) di Claude Chabrol. L'equivoco, semmai, consiste nel prendere questa faccenda da telefilm (una giovane pianista scopre che suo padre potrebbe essere un celebre concertista; l'attuale compagna del quale potrebbe aver ucciso la prima moglie, continuando a darsi da fare) per un film ad enigmi. MERCI POUR LE CHOCOLAT, al massimo, è un film sul mistero: ma quello delle origini, della filiazione, e quindi della dipendenza. Non su un suspense: che è subito, quasi completamente disinnescato. Non sulle tracce seguite da sempre dall'autore feroce LA CERIMONIA: scandagliando i vizi della borghesia, i traumi, le nefandezze che risultano dalle differenze di classe. E nemmeno (ed è il colmo, visto che il film è girato a Losanna, fra i magnati della svizzerissima cioccolata) sul silenzio sociale, la neutralità per la preservazione dei privilegi, l'ambiguità del non detto.

No, al Chabrol di questo film assoluto ma non interamente posseduto interessa soltanto l'istante presente. Se c'è tensione, questa non nasce dalla progressione di un intrigo, o di una introspezione psicologica: solo contemplazione, la risonanza dell'attimo fuggente. In questa operazione, il regista è vincente. L'accuratezza, il fremito dello sguardo registico (quegli accordi dei Funerailles di Listz che si spandono nello spazio, i piccoli malesseri di una macchia di cioccolata che si allarga sul pavimento, il latte bollente che trabocca, una bruciatura non proprio accidentale), la direzione, l'aderenza e la recitazione neutra degli attori amplificano a meraviglia il riverbero emotivo del film: su tutto, l'aderenza della fotografia di quello straordinario camaleonte che risponde al nome di Renato Berta.

Ma cos'è, allora, questo non - Hitchcock, questa strategia, orba delle fondamentali piste false di un crimine annunciato? Forse, l'analisi, da entomologo più divertito che altro, del Male assoluto. Di un fenomeno abnorme, quasi incosciente prodotto da un modo di vivere: fotografia di una perversione, voluttà di uno sguardo che ha fatta sua l'ambiguità di quello di un Fritz Lang (DIETRO ALLA PORTA viene addirittura citato).

Il fascino, ma pure i limiti del film consistono allora proprio in questa sua qualità di d'après. Dall'atmosfera a tratti affascinante; e dallo sviluppo, dal modo di procedere privo di analisi, improbabile e prevedibile da risultare pure irritante.


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